La vorare con me nei percorsi benessere non offre risposte applicabili a tutti come un farmaco, ma invita a creare quello che si definisce osservatore esterno che è una porzione di noi in grado di farci accorgere dei nostri automatismi. Perché nel momento in cui agisco un’abitudine, non sono attento a ciò che sto facendo, ed a che cosa mi ha portato ad agire.
Se creo l’osservatore esterno, posso anche innescare il pilota automatico ad esempio della guida, senza però essere ignaro/a di ciò che sto pensando.
Possiamo, con l’osservatore esterno accorgerci di come ci parliamo.
Viviamo immersi e sommersi in un oceano di parole, scritte, cantate, recitate, occulte, nostre, degli altri, della televisione, della radio, di internet…. e crediamo di padroneggiarne il significato ed i senso, almeno di quelle che usiamo noi in prima persona. L’osservatore esterno serve anche a chiederci “Che cosa significa?” “In che senso?” “Che cosa vuoi dire veramente?“
Ecco l’osservatore esterno ci invita ad scoprirci, con noi stessi, a ritrovarci spogliati dalle sovrastrutture. Dopo è una scelta personale.
Negli ultimi anni infatti, alcuni vocaboli di uso comune hanno smesso di avere un significato preciso, e sono diventate una sorta di magma indefinito. Non fanno chiarezza né dentro né fuori di noi, anzi, quando le si pronuncia, come un rito magico, fanno entrare in un banco di nebbia. Questi termini, che apparentemente tutti noi conosciamo ed usiamo, non chiariscono il concetto che stiamo trasmettendo all’altro, perché non sono inequivocabili, anzi lasciano aperto il campo dell’interpretazione al nostro interlocutore. L’assenza di un significato preciso rende uno scambio apparentemente semplice e che non vuole suscitare suspence, né alludere, né evocare, un terreno di grandi fraintendimenti.
Alcuni di questi vocaboli vengono definiti parole contenitore, nel senso di scatola o baule in cui sono gettati alla rinfusa più significati, ma che sono stati dimenticati in favore di una idea generica che non ne soddisfa alcuno in particolare, ma sembra chiaro a tutti.
Sentire è un vocabolo contenitore perché ha troppe funzioni per non dover essere ben specificato, anche a noi stessi quando lo adoperiamo:
Tutto ciò che fa capo ai sensi risponde alla domanda: “Che cos’è? Dove?“
Tutto ciò che fa capo ai sentimenti risponde alla domanda: “Che cosa provo per…?“
Tutto ciò che fa capo all’intuizione risponde alla domanda: “Che cosa c’è qui che io non vedo?“
Perciò quando si adopera questo vocabolo è utile rispondere alle domande scritte sopra, per comprendere davvero il significato che ha per noi in quel momento il verbo sentire. E per trasmetterlo all’altro? Magari sostituirlo con uno inequivocabile. Inoltre è fondamentale entrare nell’ordine di idee che ciò che si sente è personale e non è detto che corrisponda a ciò che sente l’altro. Ecco perché sentire non deve diventare un lasciapassare, un’autorizzazione per esprimersi sugli altri pensando di saperne più di loro.
Altre due parole contenitore, complesse nella restituzione di una descrizione di uno stato d’animo, sono potere e volere.
Spesso usato alla terza persona singolare impersonale “si può“. Quanti significati ha questa semplice espressione? Due ben distinti:
Risulta evidente che una semplice affermazione come “E’ mai possibile che …” richiede a chi la pronuncia di interrogarsi se il permesso lo stia chiedendo a sé stesso, ossia eventualmente al suo tribunale interiore, oppure ad un potere costituito, al di fuori del suo controllo, un’autorità riconosciuta dal sistema in cui vive. La questione diventa interrogarsi se si stia esprimendo un proprio volere, e perciò se si stia dando corpo ad un proprio desiderio, ad un proprio piacere oppure se ci si stia chiedendo se ci è concesso dall’esterno. Domandare “Posso entrare?” si traduce con “Mi è concesso, da terzi, di entrare“, ed esternarlo con una domanda significa che io ho intenzione di entrare ed aspetto il lascia passare esterno. Non c’è un modo corretto rispetto all’altro, perché non sono sinonimi. Più semplicemente è utile sapere che cosa si stia esprimendo usando un verbo che di per sé non lo esplicita.
Pensiamo, come dice molto bene Sibaldi, alle parole inglesi Freedom e Liberty. Esiste la freedom di stampa e non la liberty di stampa, inoltre c’è la statua della Liberty e non la statua della freedom. Perché? Perchè l’inglese, nella lingua correntemente in uso, offre due possibilità di esprimere il verbo potere: can e may. Queste due modalità espressive del verbo potere sono correlati rispettivamente:
Chi parla in inglese pratica questo distinguo normalmente, perciò può trasemtterlo all’interlocutore senza timore di venire frainteso. Perché è importante? Perchè esistono entrambe le questioni nella nostra vita quotidiana. E sapere dove siamo permette a noi stessi in primis ed all’interlocutore in secundis di geolocalizzarci.
Anche questo verbo spesso usato alla terza persona singolare in maniera impersonale “si deve“. Anche lui ha due significati ben distinti:
Faccio subito un esempio.
L’affermazione “È tardi devo andare” l’abbiamo fatta più o meno tutti, anche più volte. Apparentemente è chiara.
E se ti domandassi “in che senso?“. Potrebbe essere tardi ed io voglio andare a dormire altrimenti non riesco ad alzarmi in forma la mattina seguente per andare a lavorare; oppure c’è un altro impegno inderogabile e non mi è permesso arrivare in ritardo pena un’ammenda; oppure uso il verbo dovere per evitare l’insistenza dell’interlocutore e potermene andar via senza dichiarare la mia insofferenza.
È importante saperlo perché solo riconoscendo la motivazione che mi spinge a fare un’affermazione posso riconoscere il mio bisogno profondo. Può essere la necessità di rispettare il mio ciclo sonno-veglia, oppure il non voler e/o poter pagare un’ammenda, oppure la noia … ma riconoscere un bisogno e soddisfarlo mi mette in contatto profondo con la mia interiorità. Poi posso scegliere se esternarlo sulla base delle mie necessità reali, oppure no.
A quel punto se ci sarà la necessità di giungere ad un compromesso col mio interlocutore sposterò i miei confini a partire da un dato di realtà e non di “cortesia” che non tiene conto delle mie necessità. Perché alla lunga la parte di me che ho ignorato si farà così dirompente non solo da farmi soffrire e sentire insoddisfatto/a, ma da scatenare reazioni forti anche se non provocata/o. Perché se sono all’oscuro dei miei moti interiori, mi arrabbierò con l’interlocutore e non mi accorgerò che il responsabile sono io con la mia cecità.
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